Due storie di grande potenza evocativa per raccontare simbolicamente i drammi d’amore durante il fascismo Storie esemplari tratte dal tipico registro comportamentale del Ventennio. La vicenda di un figlio naturale, nato da una relazione extraconiugale del padre, un ricco borghese. Il giovane, vittima di grave ostracismo e discriminazione da parte del genitore biologico, giunse ad appellarsi a Mussolini, per ottenere giustizia. Patrocinatore del gesto supplice, ma anche di audace sfida di un figlio al padre, fu un personaggio alquanto noto: l’avvocato Pier Amato Perretta, il quale era stato costretto a lasciare la magistratura per il suo antifascismo: perirà, martire della libertà, durante la Resistenza, a Milano, il 15 novembre 1944. Il Duce, munifico difensore degli oppressi, seguì da vicino la “pratica”, atteggiandosi, nella sua maschera di inarrivabile giudice d’ultima istanza del popolo, a protettore dello sventurato.
Il libro di Roberto Festorazzi documenta, con alcuni spaccati rivelatori, la “totalitarizzazione” degli affetti e dei sentimenti amorosi nell’Italia fascista. Il caso che più di tutti illustra e ben spiega questo scivolamento della sfera privata, quella sentimentale, dentro la cultura del regime, come una sorta di reificazione totalitaria, è quello di Adriana Farinacci, figlia di Roberto, ras di Cremona, segretario del Partito nazionale fascista e gerarca temutissimo da Mussolini. Grazie all’emergere di una documentazione straordinaria e inedita - il carteggio di Adriana Farinacci, che si compone di circa 600 lettere: quasi una corrispondenza di “intelligence”, scampata miracolosamente alla distruzione - si scoprono i segreti ingloriosi di Roberto Farinacci, despota familiare, il quale agì da vero e proprio tiranno (“padre padrone”, lo definisce l’autore) nel tentativo di impedire il matrimonio della figlia con il farmacista di Cremona Palmiro Mola. Gli amanti clandestini, infatti, per anni dovettero sfidare le ire di Farinacci, che ricorse ai mezzi repressivi e di controllo dello Stato fascista - come la stretta vigilanza sulla coppia e l’intercettazione della loro corrispondenza - per imporre la propria volontà. L’ex segretario del partito giunse, praticamente, a tenere in cattività la figlia, allontanandola da Cremona, e obbligandola a vivere a Roma, dove la faceva spiare e controllare. Alla fine, però, dovette capitolare e dare il proprio assenso al matrimonio, celebrato in pompa magna, nel 1938, a Cremona, come una manifestazione di gloria sponsale del regime. Adriana Farinacci, paradossalmente, non elaborò come un’atroce violenza quanto ebbe a subire. E dopo la morte del padre, fucilato dai partigiani, a Vimercate, presso Milano, il 28 aprile 1945, si atteggiò a sua “vedova”.