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Collana Macchione di Romanzi, Racconti e Poesie

La Passione di Gesù raccontata dagli animali di Federico Bianchessi Taccioli (978-88-6570-362-5)
La Passione di Gesù raccontata dagli animali di Federico Bianchessi Taccioli La Passione di Gesù raccontata dagli animali
di Federico Bianchessi Taccioli

Disegni di Tiziano Riverso

Questo libro nasce da un suggerimento di Edvige Toeplitz Mrozowska: una donna straordinaria, polacca di nascita, cantante, attrice, moglie del piu importante banchiere italiano (Giuseppe Toeplitz fondatore della Banca Commerciale Italiana), e soprattutto grande viaggiatrice. In uno dei suoi libri di viaggio, intitolato “Visioni orientali”, scrisse nel 1930: “Io penso con rammarico che fra tanti nostri santi, fra tanti nostri poeti, che trassero la loro ispirazione dalla Fede, nessuno pensò a far esprimere con parola umana agli animali, agli uccelli, ai pesci, il dolore per la morte di Gesù. Non v’è dubbio che gli animali la sentirono al pari degli uomini, perché anch’essi sono le creature di Dio. Non v’è dubbio che la compresero, perché, se si vuol negare ostinatamente l’anima all’animale, per la semplice ragione che non si conoscono le manifestazioni dell’anima di esseri parlanti fra loro una lingua affatto diversa dalla nostra, non si può negare che il cosiddetto istinto li mette in grado di seguire qualunque manifestazione umana e di dare dei punti anche a taluna delle nostre scoperte scientifiche”. Con questo libro ho voluto realizzare il suo auspicio e dare voce agli animali che furono testimoni e partecipi della Passione di Gesù e della nascita di un modo nuovo di concepire e vivere il Creato (f.b.t).

Federico Bianchessi Taccioli è nato a Milano nel 1956, laureato all’Università Cattolica in Storia contemporanea, si è dedicato al giornalismo, lavorando al Mondo, al Giornale di Indro Montanelli, alla Voce, all’Indipendente e collaborando a varie testate. A Varese, dove risiede dal 1996, è stato redattore politico ed editorialista de La Prealpina. Ha pubblicato racconti e un romanzo storico (Un tetto alla Scala). Nel 2014 con Macchione ha pubblicato il volume Gianni Caproni. Una storia italiana. 

Link:
http://rete55news.com/2016/12/01/la-passione-per-gli-animali/
 

 
LEGGI IL PRIMO CAPITOLO
 
Io e Benbalaam 
 
Mi chiamo... già, come mi chiamo? Qualcuno sa forse dirmelo? Avrei voluto iniziare questo racconto degli eventi straordinari dei quali sono stata testimone presentandomi. L’anonimato potrebbe appannare l’attendibilità di quanto sto per riferirvi, perché si ha un bel dire “mi fido di te”, ma se poi non hai sotto gli occhi una firma con tanto di nome, cognome e indirizzo, puoi anche pensare che si tratti di un falso. Purtroppo, mi rendo conto soltanto ora di non sapere come mi chiamo. Non ho perso la memoria e nemmeno i documenti, ma è che davvero non l’ho mai saputo. Devo ammettere che nessuno mi ha mai chiamato, nemmeno una volta in tutta la mia vita. Al contrario, tutti hanno cercato e cercano ancora soltanto di cacciarmi via. Per gli altri protagonisti di questa storia, direi quasi per tutti gli esseri viventi, non è così. Loro un nome ce l’hanno. Loro vengono chiamati. A volte spesso, perché c’è chi desidera la loro compagnia. Prendete Canaan, per esempio, che è stato protagonista come me di questa avventura: non soltanto ha un nome, ma lo chiamano in continuazione: “Canaan, vieni qui! Canaan dove sei? e così via, a volte le “a” si moltiplicano all’infinito come imitassero le trombe del giudizio universale: “Caaanaaaaan, Caaaaanaaaaan!” e lui accorre, agitando la coda, a volte anche le orecchie. Canaan sa bene come si chiama. Non avrebbe difficoltà a presentarsi qui al posto mio. Potrebbe anche raccontarvi buona parte degli stessi eventi e sono certa che lo farebbe altrettanto bene, ma io ho avuto la fortuna di godere di vari punti di osservazione e di ascolto molto più favorevoli dei suoi. 
Anche il vecchio Pharaon conosce il suo nome, lo conosce a meraviglia, benché in genere faccia finta di non ricordarselo. È cieco di un occhio, ma non è sordo, niente affatto, sentirebbe il battito cardiaco di un topolino a due isolati di distanza. “Pharaooon sveglia, Pharaoooon bravo, Pharaon bello...”, e lui muove appena le orecchie, un millimetro o due nella direzione da cui proviene la voce, mentre accoccolato su una coperta finge di dormire. Oppure mentre prende il sole sul davanzale stringe le palpebre e lascia aperte soltanto delle fessure sottilissime facendo intendere di essere impegnato a tenere d’occhio una preda nascosta fuori dalla finestra. È un buon narratore, benché a volte ci metta un po’ del suo, ma in questa storia lui non c’è: era rimasto al calduccio a casa, a tenere compagnia alla padrona che è vedova e aveva bisogno di calore e affetto. Quindi, lasciamolo da parte. 
Anche quel ronzino pelle e ossa di Sam, addormentato tutto il giorno, salvo quando gli monta in groppa Simone, un ragazzone scuro e robusto che si occupa dei campi della fattoria, ha un nome. Come ce l’hanno Etmol, la vacca, e suo marito Machar. Sono tutti miei amici, anche se il mio affetto è principalmente per Benbalaam, l’asina, sulla cui testa dormo quasi tutte le notti. Lei è la vera protagonista di quanto vi sto per raccontare, nel senso che senza Benbalaam non avremmo mai visto e saputo nulla. Le spetterebbe di diritto, dunque, essere qui a parlarvi. Ma l’asina è di una timidezza spaventosa. Lo è in generale, ma in questo caso, poi, supera se stessa. Proprio perché si è trovata in primo piano, tanto più ora rifugge dal mettersi in mostra. Benbalaam è l’umiltà fatta asina. L’ho pregata di raccontarvi quanto accaduto, ma non c’è stato verso. La sola idea di venire qui a parlarne la terrorizzava al punto da farle tremare le ginocchia e annebbiarle la vista. Ma di lei parlerò in abbondanza, ora volevo concludere l’anagrafe del nostro cortile, che comprende quegli antipatici del gallo Hocko e delle sue galline Shanì, Levanà e Gera. E infine ci sono io, quella senza un nome, ovvero a seconda delle circostanze la brutta, la sporca, la noiosa, la stupida, la schifosa... sempre a dovermi guardare dalle frustate di code pronte a farmi ruzzolare, da mani protese a colpirmi, per non parlare di certe terribili palette sotto cui molte mie povere sorelle hanno fatto una fine agghiacciante. Come se a rendermi la vita difficile non bastassero predatori come i ragni, le rondini, le lucertole e i pipistrelli. Perché tutto questo odio, in realtà non me lo spiego. È qualcosa che sfugge alla ragione, una violenza cieca che posso attribuire soltanto a qualche oscuro turbamento dell’animo smosso dalla mia semplice presenza. Eppure il mio comportamento è irreprensibile sotto tutti i punti di vista. Mangio pochissimo e mi accontento di ciò che gli altri buttano via, sono pulitissima - tutti i giorni dedico molto tempo a fare toilette, perché detesto le zampe e le ali insudiciate - e non faccio rumore, in ogni caso infinitamente meno di Canaan. Anche lui, con tutto il suo buon cuore, fa parte della congiura contro di me, visto che quando cerco di socializzare e mi avvicino per salutarlo, diventa scontroso e fa scattare i denti come se volesse inghiottirmi. 
Un’amica sincera, grazie al cielo, nella fattoria ce l’ho anch’io, come dicevo. È ormai da qualche mese che mi accampo tutte le notti tra le morbide orecchie di Benbalaam, il mio giaciglio prediletto. Sono magnifiche le orecchie degli asini. Comode, calde, protettive. E ci puoi fare una bella passeggiata su e giù, cercando qualche frammento di cibo impigliato nei suoi lunghi peli. Conoscete la leggenda delle orecchie dell’asino? No? Si tramanda che nel Paradiso Terrestre, un giorno Adamo cercava l’asino e non lo trovava. Lo chiamò e ri- chiamò, ma quello si era già dimenticato il nome che gli aveva dato. Il buon Dio lo vide in un prato a pascolare bel bello, indifferente alle grida di Adamo. Allora il Creatore lo prese per le orecchie e tirandogliele ripeté: “Asino, asino, asino”: gliele tirò tre volte e così gli diventarono lunghe. Non giurerei che sia andata davvero così, ma bisogna ammettere che anche Benbaaam è spesso con la testa tra le nuvole e non risponde quando la chiamano. 
Distrazione e timidezza a parte, è davvero un’asina gentile e paziente. Ha la sua età e qualche acciacco, ma si lascia perlustrare il pelo senza lamentarsi e a volte posso anche bere un sorso delle sue lacrimucce, quando fanno capolino ai bordi degli occhi. 
Anche Etmol e Machar mi tengono compagnia, ma sono un po’ meno pazienti. Quando converso con loro, dopo un po’ scuotono la testa come per dire “lasciaci in pace”, e iniziano ad agitare la coda. Non ce l’hanno tanto con me quanto con certe mie sorelle che, lo devo riconoscere, hanno pochi riguardi e pretendono di andare a spasso tutte insieme su e giù per la groppa di quelle povere creature e qualcuna ha pure l’impudenza di avventurarsi verso quelle parti che mandano un certo odorino. Sin da quando sono uscita dalla crisalide so di non dovermi mai ficcare sotto la coda dei quadrupedi e la dolce Benbalaam si dimostra riconoscente di questo mio comportamento rispettoso. Con lei mi intendo a meraviglia e perciò l’ho scelta per farmi da letto, cuscino e coperta. Alla sera mi immergo nel morbido pelame sulla cima della testa, caldo ma non soffocante, stiracchio le ali e godo tranquilla e al sicuro il tepore di quella chioma fino a quando il sole sale ben alto. Non vengo mai disturbata troppo presto, a differenza di quanto accadeva prima, quando dormivo in groppa a Etmol. La vacca ogni mattina alle cinque viene munta dalla padrona... e addio sonno. Ora invece mi capita di sonnecchiare anche fino a mezzogiorno. 
Potete quindi immaginare la mia sorpresa, anzi, a dirla tutta, il brusco spavento di quella mattina... macché mattina: era ancora buio pesto, notte fonda, con tutte le candide mosche di cristallo ancora sparse nel cielo attorno alla bianca tazza di latte da cui bevono. Dormivo, sognavo. Sogno spesso e quella volta mi vedevo grande come una casa, di più... come una di quelle colline giù in fondo al campo, verso la città, ed era Benbalaam che mi dormiva sopra, dietro la mia testa: l’asina era piccola piccola, stava stesa a pancia in su tra le mie ali e non pesava nulla. Però russava e a un certo punto russò così forte che mi svegliai di soprassalto con l’idea di scuoterla per farla tacere. In realtà Benbalaam stava ragliando. Non l’avevo sul dorso, ma era lì in piedi sotto di me, sveglia e agitatissima. Che cosa stava succedendo? Il suo muso sporgeva oltre la finestrella della stalla e quando le chiesi spiegazioni di tanto trambusto, lei alzò la testa all’indietro facendomi capire che dovevo prendere il volo per poter ascoltare da vicino quello che voleva dirmi. Stiracchiai le ali intorpidite e balzai sulla mangiatoia davanti a lei. 
«Domani sale in trono il mio re», cominciò. «Sì, proprio il mio re! Sai già di chi sto parlando, vero? Non possiamo mancare alla cerimonia, sarà straordinaria». Il suo re! Certo che sapevo di chi stava parlando, come avrei fatto a non saperlo, visto che da un paio di giorni non c’era altro argomento di conversazione? Benbalaam è adorabile, possiede tante ottime qualità che a volte me la fanno sembrare quasi una mosca, ma non ha il senso della misura. Non da quando le è capitata quella cosa, per lo meno, l’episodio dal quale prende il via tutta la storia che vi sto raccontando. Ha vissuto il suo quarto d’ora di celebrità e ora sembra che tutti l’abbiamo sempre sottovalutata, non abbiamo mai capito con quale sua altezza asinina spartivamo la fattoria. È una creatura modesta e umile, l’ho appena detto, eppure in questo caso sembra proprio essersi montata la testa. Anche se mi chiedo - resti tra me e me, guai se osassi dirglielo in faccia!, sarebbe capace di non farmi più dormire tra le orecchie -, mi chiedo, insomma, che merito abbia poi avuto. Quella mattina, Sam, il ronzino, non aveva voluto saperne di muoversi, durante la notte nella stalla si era lamentato della biada mangiata alla sera, sosteneva che gli era rimasta sullo stomaco, e quando Simone lo aveva attaccato al solito carretto aveva finto di zoppicare, così era stato lasciato a pascolare tranquillo nel prato. Era perciò toccato all’asina andare in città con il carico di frutta e di sementi da vendere al mercato. Ottima frutta, tutta del nostro frutteto, e pregiate sementi dei nostri campi: grano, orzo, uva, fichi, melograni e datteri, tutta roba da leccarsi le zampe mille volte tanto è saporita. Io stessa sono nata in uno dei nostri fichi e fin da larva ho sviluppato un gusto per i dolci e a volte... ma sto perdendo il filo, stavo parlando di Benbalaam. Costretta a prendere il posto di Sam, per la prima volta venne accompagnata anche dal piccolo Balli, l’asinello che ha avuto quest’autunno, un ciuchino dagli occhioni di cerbiatto, e Simone mise in groppa anche a lui una piccola gerla leggera, con qualche favo di miele. 
Arrivarono al mercato di Betfage, un paesetto sulla strada di Betania, non lontano dalla città. Tutta la roba era stata appena scaricata quando compaiono due tali che si rivolgono a Simone e gli domandano in prestito l’asina e il piccolo. In prestito, e per farne cosa? Il con- tadino non si fida, gli asini non sono suoi, e poi quei tipi non li ha mai visti prima, non hanno l’aria di essere del posto. Ma quelli insistono, sembra siano arrivati lì proprio per Benbalaam e per Balli, tanto sono decisi nell’indicarli. Simone fa qualche domanda, chi sono, da dove vengono, ma esita, sospetta un imbroglio. Gli è capitato anni fa che un mulo gli venisse portato via lungo la strada da certi banditi con il volto coperto da cappucci, armati di coltelli. Però i due sconosciuti avevano l’aria gentile, anche se erano sudati e indossavano tuniche impolverate, come se avessero camminato a lungo senza fermarsi. Spiegano al contadino che sono stati mandati da un importante rabbi, il maestro lo chiamano, proprio per cercare quell’asina e il suo puledrino, quindi doveva sapere bene dove li avrebbero trovati, appunto lì a Betfage. 
«E come faceva a saperlo? È la prima volta che vengo qui con l’asina e il puledrino», obietta Simone.
I due ammettono di non averne idea, ma doveva stare tranquillo, le due bestie non correvano nessun pericolo. In ogni caso, erano sicuri che gli sarebbero servite per un un’ora, al massimo due. Il tempo di fare, aggiunsero, un regale ingresso a Gerusalemme. 
Simone scoppiò a ridere, ma a ridere che quasi non si fermava più. Pensava che fosse uno scherzo, quale re avrebbe mai fatto il suo ingresso a Gerusalemme in groppa a un’asina? Su questo dettaglio Benbalaam preferisce sorvolare e ha un buon motivo per farlo: credeva anche lei che fossero dei buontemponi. Invece no: i due assicurano che la cosa è seria, citano alcuni passi dei profeti e spiegano a Simone che non c’è nessun errore. Grazie all’asina e al suo asinello, il popolo capirà con chi hanno a che fare, cioè il nuovo re, quel- lo vero, voluto da Dio, non il re Erode di Galilea che l’hanno voluto i Romani. Fatto sta che effettivamente, secondo quello che la mia amica mi ha raccontato mille volte dal suo ritorno a casa, è arrivato un uomo che tutti chiamavano “Rabbi” e “Maestro”. Ha accarezzato la testa di Balli e di Benbalaam e avrebbe pure detto all’asina di stare tranquilla, che non avrebbe fatto nessuna fatica e che, anzi, si sarebbe divertita. Tranquillizzò anche Simone, assicurandogli che i suoi discepoli gli avrebbero riportato gli asini molto presto, al massimo un paio d’ore, però avrebbe fatto prima se avesse accettato di seguirli a Gerusalemme. E così fece Simone: si buttò in gola una sorsata di acqua e limone, si avvolse la testa in una sciarpa e si mise dietro all’asina. Camminavano lentamente. Maestro Rabbi era un uomo alto e forte, ma quando le montò in groppa, Benbalaam non sentì nessun peso, anzi ebbe l’impressione di avere ripreso le forze che aveva profuso nel trasporto della merce. Entrò dunque di buon passo a Gerualemme, con il piccolo Balli che le trotterellava accanto, tutto fiero del suo primo viaggio in città, e Simone dietro, a poca distanza. 
Una folla enorme si era già radunata lungo il tragitto che dalle mura della città portava al santo Tempio. Tutti agitavano foglie di palma e cantavano una inno del quale Benbalaam ricordava soltanto l’inizio, “Hosi ahnà”. Alcune persone si erano addirittura tolte il mantello e l’avevano steso davanti a lei, perché ci camminasse sopra. Fu allora chiaro che i due discepoli avevano detto la verità. Sì, proprio grazie all’asina e all’asinello si stava compiendo l’antica profezia e tutti festeggiavano. 
A Benbalaam quel re le risultò subito simpatico. Dapprincipio le aveva regalato una bella carota fresca, poi le era montato in groppa con garbo e le aveva detto gentilmente “andiamo”, anziché “uh” o “oh” come facevano gli altri uomini, compreso Simone. E alla fine di quella straordinaria cavalcata - che la lusingò in quanto le parve che tutti additassero proprio lei e le rivolgessero degli applausi - ricevette in premio un abbondante carico di biada e qualche ortaggio saporito. Era così eccitata che al ritorno si lasciò cavalcare senza protestare da Simone, che all’arrivo riferì subito alla padrona quanto era accaduto. 
Nella stalla, quella sera, Benbalaam pareva un’altra. Aveva portato il re, quindi poteva considerarsi una regina! Un’asina di campagna come lei, un’asina che non aveva mai tenuto in groppa, a parte me, altri esseri viventi che quel rozzo contadino del defunto padrone e qualche gabbia di polli, era diventata la cavalcatura di un sovrano d’Israele. Non la tenevamo più a freno, ogni volta ricominciava la storia da capo e l’ampliava. E che effetto fa sfilare in mezzo alla folla che canta e esulta... e quanta gente lungo la strada... fin sugli alberi si erano arrampicati... e che spettacolo, e che feste, e che brav’uomo quel re!... e come lei aveva fatto del suo meglio per sembrare più alta, quasi sollevandosi sulle punte degli zoccoli perché l’orlo della veste del re non spazzasse la strada. Una volta, Canaan le disse per scherzo che le avrebbero sicuramente eretto un monumento, ma Benbalaam non sospettò affatto che la prendesse in giro: sì, annuì pensosa, probabilmente le avrebbero fatto una statua sulla piazza, lei insieme al re. 
La sbornia di popolarità stava appena cominciando a sfumare, ma ecco che l’altra notte riesplose all’improvviso. «Hai sentito cosa diceva Hocko?», ragliò. Io non ascolto mai quel gallo che all’alba si picca di svegliare tutti, ma l’asina si rispose da sola:
«Ha saputo che domani c’è l’incoronazione. Del mio re». Da chi l’aveva saputo? «Da un gallo di Gerusalemme che diceva di avere sentito che i soldati romani cercavano gli amici del nuovo re per invitarli alla cerimonia a palazzo. È lui che ha dato per primo la notizia, ed è certa perché l’ha ripetuta ben tre volte!». 
Non so molto di re e di palazzi, in città mi spingo raramente, ma sono amica di Benbalaam e non la contraddico, se non per il suo bene. «D’accordo - le ho detto - è una bella notizia, è il tuo momento, non puoi mancare». Benbalaam sognava già una stalla tutta nuova, una stalla rivestita d’oro con materassi di seta, e una schiera di assistenti a occuparsi di lei, a spazzolarle il pelo, farle la pedicure agli zoccoli, lustrarle il naso, profumarle il ciuffo. 
«E un fiocco rosa sulla coda, no?», squittì Mahir, spuntato dalla sua buca con un pezzo di formaggio in bocca. Ma non gli demmo retta. È un topo di campagna. Che ne sa di eleganza uno come lui? 
«Ci tengo che tu venga con me a corte», mi disse l’asina. Finsi di voler resistere, sapendo bene che era inutile: «Non ho niente da mettermi - obiettai - e poi non saprei nemmeno come farmi annunciare, non possiedo biglietti da visita e non avrei nemmeno un nome da scriverci sopra». 
«Sei elegantissima così, con la mise scura. Sembri fatta apposta per le cerimonie! Quanto all’annuncio, sarà il momento migliore per ricevere finalmente un nome. Ci penseremo lungo la strada, poi lo sceglieremo insieme. Ma dobbiamo muoverci, mettiamoci in marcia». Le feci osservare che c’era un problema. Benbalaam era saldamente legata a una cavezza per paura dei furti, e non ci fu modo per lei di liberarsi con i denti. Non potemmo fare a meno di chiedere aiuto a Mahir. Il topo rosicchiò rapidamente la corda, ma pretese di venire a palazzo anche lui. 
«E io?», ragliucolò Balli. Mamma Benbalaam, però, scosse la testa: «Piccolo mio, è meglio che tu resti qui». «Ma percheeeé? Voglio venire anch’iiiiioo», iniziò a strillare. 
«Per un asino ancora piccolo come te andare a Gerusalemme può essere pericoloso. È notte e ci sono in giro i lupi!»
«I lupi? Non è verooo! Vengo anch’iiiiooo! Anch’io ho portato il re l’altro giorno!». Cercai di farlo ragionare: «Già, e hai visto che confusione? C’era gente arrampicata fin sugli alberi. Rischiavano di schiacciarti! E per l’incoronazione sarà cento volte peggio.» 
Mamma asina riprese: «Ho paura, Balli. Finiremmo per perderti nella calca. E poi dobbiamo camminare in fretta, anzi correre. La strada è lunga».
«Mmmm... muuuti!», muggì Etmol, protestando per il chiasso. «Muuuti, mi mungono alle cinque, silenzio, muoio dal sonno!» 
Anche suo marito protestò: «Buuuooonoo Bali! Ubbidisci!»
L’asinello abbassò le orecchie fino a terra e Benbalaam colse l’attimo favorevole: «Hai sentito, Balli? Stai svegliando tutta la stalla». 
«Mi spiace», rispose il piccolo, rattristato. 
«Andrei anch’io all’incoronazione del re - aggiunse la buona Etmol -, ma devo essere munta. Benbalaam, lascia che a Balli badiamo noi».
L’asina assentì: «Sì, ti ringrazio molto. Dobbiamo sbrigarci, se la padrona viene qui adesso, sarà furiosa e non potremo più muoverci. Balli, resta con Etmol e Machar. Quando torniamo, prometto di raccontarti tutto». 
«E portami un regalo!».
«Va bene, piccolo, te lo prometto».
Balli si rassegnò e si sdraiò di nuovo nella paglia: pochi secondi dopo, lo sentimmo russare.
Mentre uscivamo dalla stalla, ci venne incontro Canaan. Aveva sentito il rumore nella stalla e stava venendo a controllare. Non poteva lasciarci uscire dal recinto, ringhiò, altrimenti la padrona lo avrebbe punito. O tornavamo indietro o avrebbe abbaiato. Una minaccia seria, che però Benbalaam sventò abilmente, invitando anche lui: «Il re avrà senz’altro bisogno di un campione da guardia! Ti farà marchese o almeno barone, avrai bocconi da principe... e metterò io due buone paroline per te!»
Ora che anche Canaan era dei nostri, mancava soltanto qualcuno che aprisse il pesante listello che chiudeva la cancellata d’ingresso della fattoria. E qui entrò in scena Doccodon, il papero dello stagno dietro il pozzo. Non ne ho ancora parlato, perché lo stagno è pieno di rane che mangiano le mosche e di insetti che attirano gli uccelli che poi mangiano le mosche. Insomma, è un postaccio dal quale mi tengo alla larga. Ma Canaan ha un buon rapporto con Doccodon, a volte sembra che stiano litigando, invece si tratta solo di discussioni sulle previsioni del tempo. Doccodon è pessimista, percepisce sempre in arrivo terribili perturbazioni o devastanti siccità. Canaan invece non crede mai alle previsioni e gode un sacco quando Doccodon le sbaglia. Così Canaan sorprese Doccodon, che è molto mattiniero e stava già lisciandosi le penne, annunciandogli che lo stagno sarebbe stato presto colpito da un’onda anomala, forse da un nuovo diluvio universale. Era meglio correre subito in città, dove avrebbero potuto essere accolti nel palazzo del nuovo re, che era amico di Benbalaam, e mettersi in salvo come sull’Arca di Noè. Il papero se la bevve d’un fiato e con il suo robusto becco sollevò facilmente il chiavistello e ci liberò tutti. L’asina non stava più nella pelle. Voleva correre avanti, ma la trattenemmo: saremmo arrivati in città insieme, al passo che occorreva per non disperderci e non finire in bocca ai lupi. 
«Perché, ci sono davvero i lupi?», si allarmò.
«L’hai appena detto», le fece notare Mahir.
«L’ho detto a Balli per convincerlo a restare a casa». «Gliel’hai detto perché lo sai che i lupi ci sono davvero, altrimenti non ti sarebbe venuto in mente!», osservai io, con la logica implacabile di noi ditteri. Quasi, stava per ripensarci. «Ma sono rarissimi!», la tranquil- lizzai. «Basta non correre e stare uniti: i lupi attaccano soltanto chi corre da solo».
Benbalaam prese in groppa Doccodon, il più impacciato nel camminare con quelle zampette corte e goffe, mentre io mi sistemai al posto di comando, ben in equilibrio tra le orecchie, da dove potevo dominare la situazione. Ci avviammo. Già, ma da che parte? Con il buio, l’asina non si raccapezzava più sulla strada da prendere. Dovevamo girare a destra o a sinistra? Nella direzione da cui cominciava a balenare l’aurora oppure là dove ancora si addensavano gli sciami delle mosche luminose della notte? Fu un momento difficile, non eravamo ancora partiti e già ci sentimmo perduti. A salvarci fu Kutkh, il corvo. Si era abbassato da un albero per dare un’occhiata non proprio disinteressata a Mahir, ma il papero se ne accorse e distrasse il nero uccellaccio dal nostro amico topo: «Hai visto se c’è in giro qualcosa di... più appetitoso di un ratto da mettere sotto il becco?», gli domandò. 
«Dove andate?», chiese il corvo al papero.
«In città, ma non sappiamo da che parte sia».
«Ci vado anch’io, laggiù. Pare che ci sarà banchetto. Qualcosa avanzerà anche per noi...».
«Sì, il banchetto del nuovo re!», esclamò felice Benbalaam e propose al corvo: «Allora, andiamoci insieme. Io ho l’invito, sono amica del re».
«L’invito a me non serve, ma vengo volentieri con voi, così mi spiegate questa novità del re, ne ho sentito parlare anch’io, ma non so se sia proprio lo stesso banchetto. Si va di là, conosco la strada. Dobbiamo arrivare, mi hanno detto, dalle parti delle cave».
«Per l’incoronazione? Ti sbagli, sarà certamente a palazzo», lo corresse Benbalaam. Kutkh non disse altro e prese il volo indicandoci la strada. Ogni tanto scendeva a terra e camminava qualche passo, girando il becco verso di noi per sollecitarci. Allora ci affrettavamo, mentre il cielo si imporporava e anche la mosca del mattino, la bella mosca d’argento da cui tutte noi discendiamo, sembrava volerci seguire. Mi parve però che il corvo ci nascondesse qualcosa, che la sapesse più lunga di Benbalaam, e provai una sensazione strana, la prima inquietudine di quella indimenticabile giornata che stavamo per vivere.

 

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